Il Nobel a Bob Dylan

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In principio era l’America puritana degli anni 50, quella che ci veniva propinata  nei film con John Wayne, quell’immagine dell’America conformista e un po’ falsa come l’erba sintetica del prato nei quartieri residenziali. Quell’America dove se la tua pelle è troppo scura sei considerato tutto ciò che resta di un essere umano.

Solo da lì,  ed in quel contesto, sarebbe potuto partire quel cambiamento che influenzerà la cultura dei decenni a venire. Furono le giovani generazioni a ribellarsi ai “sacri valori” dei loro genitori; ed  avevano le facce e i nomi di  Jack Kerouac, Lucien Carr, Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso, Neal Cassady, Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti, Norman Mailer. Padri fondatori di quel movimento di protesta che venne poi chiamato “Beat Generation” che influenzerà in modo netto  l’arte, la letteratura, la poesia, la musica ed il cinema dei decenni a venire.

L’America verrà narrata in un modo completamente diverso, magari dalla prospettiva del viaggiatore che si trova su una vecchia macchina, su una strada polverosa che sembra non finire mai,  dove ai lati  si vedono i serpenti che scompaiono dietro le rocce e non di certo le immagini rassicuranti e consolatorie del focolare domestico. Il sesso, la droga, gli atteggiamenti stravaganti, le religioni orientali e tutto ciò che turba i benpensanti da lì in avanti  verranno considerati uno strumento per trasmettere e condividere l’arte. La libertà viene da loro percepita nella trasgressione delle regole e delle convenzioni sociali. Con tutto ciò che questo comporta, spesso pagandone direttamente e con la propria vita tutte le conseguenze.




Mi rimane difficile parlare di Dylan. Potrei farlo analizzando i suoi dischi più belli, della musica folk e di tutti i sottogeneri che sono nati da essa, ma questo lo stanno facendo tutti in questi giorni. I soliti bla bla bla di circostanza in concomitanza della notizia del Nobel.

Io  immagino Dylan con la sua chitarra acustica, vestito con una camicia da lavoro tutta stropicciata, capelli spettinati ed un cappello da cowboy in testa. Un menestrello con una lingua tagliente come una lama che taglia il ghiaccio. Che racconta  storie parlando dei diseredati, della povertà più estrema, delle condizioni di vita di chi lavora in miniera e di  tutti quelli umiliati ed emarginati per il colore della pelle.

Soffiando nel vento (blowing in the wind)

 

Quante strade deve percorrere un uomo
prima che lo si possa chiamare uomo?
Sì, e quanti mari deve sorvolare una bianca colomba
prima che possa riposare nella sabbia?
Sì, e quante volte le palle di cannone dovranno volare
prima che siano per sempre bandite?
La risposta, amico, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento

Quante volte un uomo deve guardare verso l’alto
prima che riesca a vedere il cielo?
Sì, e quante orecchie deve avere un uomo
prima che possa ascoltare la gente piangere?
Sì, e quante morti ci vorranno perchè egli sappia
che troppe persone sono morte?
La risposta, amico, sta soffiando nel vento

Quanti anni può esistere una montagna
prima di essere spazzata fino al mare?
Sì, e quanti anni la gente deve vivere
prima che possa essere finalmente libera?
Sì, e quante volte un uomo può voltare la testa
fingendo di non vedere?
La risposta, amico, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento